giovedì 20 marzo 2014

Siamo sicuri che uscire dall’euro ci getterà nel caos?

Finora la  propaganda l’ha fatta da padrone. Dati alla mano, l’inflazione sarebbe contenuta, il  debito estero ridotto e la politica liberata dai vincoli di  Bruxelles e dall’ austerity.

- di Francesca Donato (presidente di Eurexit) -
Sul tema dell’euro e della possibilità di uscita dell’Italia dall’eurozona è stata condotta sino a oggi una sistematica campagna di disinformazione, promossa dai poteri forti che grazie al sistema incentrato sull’euro hanno consolidato le proprie posizioni. I principali media, foraggiati dai sostenitori dell’euro ad ogni costo, hanno dato voce alla propaganda eurista, che ha diffuso false idee e false informazioni, secondo le quali l’Italia non può fare a meno dell’euro, e l’uscita sarebbe impossibile o creerebbe disastrose ed irrimediabili conseguenze. In realtà, i più autorevoli e accreditati studi sull’argomento, condotti dai migliori economisti mondiali e da istituti indipendenti, hanno sempre sostenuto che l’adozione della moneta unica avrebbe portato a una grave crisi economica in Europa, cosa che si è verificata. Gli stessi studi oggi affermano concordemente che l’uscita dall’euro per l’Italia è possibile ed è l’unica via concreta per consentire al nostro Paese (come agli altri Paesi del Sudeuropa in difficoltà) di rilanciare l’economia ed invertire il processo di recessione attualmente in corso.
Uscendo dall’euro ci sarebbero due ordini di benefici: uno prettamente economico ed uno politico, interconnessi fra loro.
Innanzitutto, l’uscita dall’Eurozona ci consentirebbe di liberarci dai vincoli imposti dal trattato istitutivo del Mes e da quelli del “Patto di stabilità e di crescita”, cioè di smettere di dover versare ogni anno quaranta miliardi al Mes e altri quarantacinque per ridurre gradualmente il debito pubblico sino ad arrivare alla soglia impostaci del sessanta per cento sul Pil. Significherebbe, in sostanza, un taglio alla spesa pubblica, quindi un risparmio per lo Stato italiano, di ottantacinque miliardi di euro dal prossimo anno. Obiettivo che sarebbe impensabile raggiungere restando nell’Eurozona.

Il logo di Eurexit, l’associazione di economisti che si batte per l’uscita dell’Italia dall’Eurozona.
In secondo luogo, il ritorno alla nostra moneta porterebbe una naturale svalutazione della stessa, che renderebbe immediatamente i prodotti italiani più competitivi, verso il mercato sia estero che interno, di quelli stranieri, con un rilancio fortissimo delle esportazioni.
Diventeremmo un Paese solvibile, perché in grado di emettere la moneta per pagare i nostri debiti, e quindi più affidabile sui mercati. Potremmo infine finanziare con la nostra moneta gli investimenti pubblici necessari per creare occupazione, ridurre la pressione fiscale e stimolare la crescita, senza dover necessariamente incidere sulla spesa pubblica per i servizi necessari, come si è fatto sinora.
Dal punto di vista politico, ritorneremmo arbitri del nostro destino, cioè autonomi nelle nostre scelte di politica economica e finanziaria, e non più soggetti all’approvazione della Troika sulle nostre manovre. Potremmo anche togliere dalla Costituzione lo scellerato obbligo di pareggio del bilancio, anch’esso determinato dai trattati istitutivi dell’euro, e fare spesa pubblica anche superando l’assurdo tetto del tre per cento del deficit sul Pil, che in momenti di recessione come questo è controproducente dover rispettare.

Francesca Donato, presidente di Eurexit.
Abbandonare l’euro non vuol dire dover uscire dall’Europa. Anzi, l’uscita dovrebbe essere realizzata tramite un percorso di collaborazione e coordinazione con gli altri Stati europei, e in un quadro di legittimità rispetto ai trattati. La nostra posizione in Europa andrebbe però rivalutata, con la necessità di ottenere risposte alle nostre esigenze più urgenti e importanti, quali ad esempio la gestione degli immigrati clandestini e tutela del marchio made in Italy.
E poi, bisogna chiarire che se tornassimo alla lira, o a qualunque altro conio si voglia, il cambio iniziale sarebbe di uno a uno, cioè: un euro uguale una lira. È ridicolo solo pensare che si tornerebbe al cambio adottato al momento dell’entrata nell’euro, cioè un euro uguale a 1.936 lire, perché oggi non avrebbe alcun senso.
Quindi, i cento euro di oggi diventerebbero cento lire. A questo punto, mettendo la nuova lira sul mercato dei cambi, si assisterebbe a una svalutazione del suo valore, dovuta al riallineamento dello stesso al tasso di inflazione reale del nostro Paese.
E qui si scopre l’inganno, o l’errore di chi parla di svalutazione del cinquanta per cento. Economisti come Bootle e Sapir danno come stima prudenziale una svalutazione da un minimo del dieci per cento ad un massimo del venti.
Questo non vorrebbe dire che il giorno dopo quello che prima costava un euro costerebbe una lira e venti, perché l’inflazione non aumenterebbe di venti punti ed i salari non perderebbero il venti per cento del loro potere d’acquisto, come vorrebbero farci credere. Per fare un esempio, fra 1992 e 1993, quando la lira svalutò del venti per cento l’inflazione aumentò solo del quattro. Quindi non è vero che la svalutazione si tradurrebbe in un pari aumento dell’inflazione. Chi dice questo, o è in malafede, o non possiede le nozioni fondamentali della macroeconomia.
Dato che la svalutazione prevedibile per l’Italia va dal dieci al venti per cento, nel primo anno avremmo un aumento dell’inflazione fra il 3,5 ed il sette per cento, e considerando che attualmente la nostra inflazione è intorno al due, l’inflazione aggiuntiva “da uscita” porterebbe l’inflazione effettiva fra il 5,5 ed il nove per cento. Peraltro, dagli studi effettuati da Bootle e Sapir sulle conseguenze dell’uscita, risulta che gli effetti suddetti verrebbero diluiti nel tempo, quindi negli anni successivi al primo l’inflazione scenderebbe.
Oltre a tutto quanto detto sopra, bisogna tener conto anche del fatto che, riacquistata la propria sovranità monetaria e di conseguenza la propria autonomia in termini di politica economica, lo Stato italiano avrebbe margini di intervento per contenere l’inflazione, ad esempio riducendo le accise sui carburanti (per compensare l’aumento del costo degli stessi sul mercato estero) e riducendo le imposte dirette (come l’Iva sugli acquisti di beni e servizi). Inoltre, si avrebbe verosimilmente un rilancio dell’economia, con un aumento del reddito medio pro-capite, che andrebbe a rinvigorire il potere d’acquisto dei consumatori.
Insomma, un’inflazione media al sette per cento nel primo anno (collocabile fra un minimo del cinque ed un massimo del nove per cento), destinata a scendere nei successivi, sarebbe perfettamente gestibile e non avrebbe affatto ripercussioni significative sul nostro stile di vita. Ricordiamocelo la prossima volta che ci parleranno a vanvera di “inflazione a due cifre” nel caso di uscita dall’euro

Fonte :  Pubblicato da Stefano per informareperresistere



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